Hermann Buhl era un uomo innamorato delle montagne.
Un amante molto spesso solitario, voglioso di percepire l’ambiente e le emozioni di chi vive a tutta, fino all’ultimo sprazzo di energia. Non era un folle Hermann Buhl. Era un profondo conoscitore del suo corpo, della sua psiche e delle sue possibilità. E dove c’era il rischio, dove avrebbe potuto nascondersi una sfida, allora ci sarebbe stato anche lui.
Le valli del Kashmir sono ricche di spiritualità; spostandosi più in alto, questa si fa sempre più laica, sempre più concreta ma non meno intensa e profonda. Nel Kashmir si possono toccare gli Dei, sotto forma di gigantesche montagne. Ce n’e` una in particolare, la nona più alta del mondo con i suoi 8.125 metri. Ultimo ottomila himalayano occidentale, prima dell’inizio del Karakorum nel Kashmir si può entrare in contatto con “la montagna nuda”. Nuda perché nemmeno la neve riesce a fermarsi sulla parete del versante Rupal. Tecnicamente estrema, il Nanga Parbat si alza dalle profondi valli dell’Indo. Furono in tanti, tra alpinisti e portatori, ad assediare questo colosso. Molti di loro sono rimasti lì, sul Diamir, il re delle montagne.
“Sono nato a Innsbruck. Le montagne guardavano nella mia culla”.
Si presentava in questo modo l’austriaco Hermann Buhl, un predestinato capace di entrare elegantemente nella storia dell’alpinismo Himalayano.
“L’essere umano vive in città, mangia senza fame e beve senza sete, si stanca senza che il corpo fatichi, ricorre il proprio tempo senza raggiungerlo mai. E’ un essere imprigionato, una prigione senza confini da cui è quasi impossibile fuggire. Alcuni esseri umani però a volte, hanno bisogno di riprendersi le proprie vite, di ritrovare una strada maestra. Non tutti ci provano, in pochi ci riescono.”
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