Cosa c’era prima della diga del Vajont?

La diga calamitò le attenzioni del mondo e la valle venne indelebilmente associata al disastro. Ma le comunità superstiti hanno molto di più da raccontare. Di documenti disponibili non ce ne sono molti, eppure se si scava a fondo e con rispetto nel silenzio di questi territori, si scoprirà un mondo incredibile. Un mondo cambiato dall’acqua, un mondo rurale e severo ma che era casa. Casa vera. Anche per quelle ambulanti giovani, al primo giro, che venivano benedette dai preti prima della stagione lavorativa. Perché fossero protette durante il viaggio.
A quell’epoca i tramonti non si specchiavano ancora nell’invaso e la luce illuminava frazioni, borgate, contrade e paesi. Diventavano rosse, arancioni, rosa e violacee prima che venissero accese le candele e il lampionaio decretasse la fine di un altro giorno, lassù, nella valle del Vajont.

Case di pietra, ciottoli, zoccoli, animali, stalle, casere, capanni, malghe, latte, grappe, vini, osterie, piccoli alimentari, negozi, laboratori d’artigianato, mulini, segherie, zappe, rastrelli, martelli, asce, sgorbie, profumi, torrenti, boschi, rampe, silenzi, solitudine, risse, abbracci, comunità, identità, ricordi, memorie, storie, processioni, chiese, tradizioni.
In un elenco come questo si nasconde l’essenza della vallata del Vajont. Un’essenza che nessuno mi ha raccontato, se non qua e là seduto su un ceppo o mentre mi cambio le scarpe a Erto.
Bagagliaio aperto, polvere e sudore tra i vestiti, il caldo estivo che esce dalla macchina chiusa da alcune ore.
Sono sceso dal Borgà in anticipo, il tempo non è buono. Sono da solo, le montagne di fronte a me cominciano a essere oscurate dalle nuvole. Sopra di me, il cielo romba. Si avvicina una signora. Avrà si e no 70-75 anni. Mi chiede chi sono e da dove vengo. Rispondo. Lei parla, racconta, mi spiega come vive lassù.
Abita ai confini del bosco, mi indica uno dei punti da cui sono appena sceso. Le sue macchine arrivano dappertutto, mi dice.

“Con qualsiasi tempo”

Poi si indica i piedi, eccole lì le sue pandine. La strada che porta verso casa è in piedi, gradinata con sassi e radici. Scende e sale sempre a piedi, da sola. Non saprei dire il perché, ma ci tiene a raccontarmelo. Poi se ne va, ha iniziato a piovere. E tutto torna tranquillo. Il grigio si è conquistato il cielo. Non è facile trovare informazioni, soprattutto da lontano, sulla vallata del Vajont prima ancora dell’invaso. Questo studio mi ha spinto a osservare e ascoltare i dettagli. Parte tutto da un’intervista a Mauro Corona, datata diversi anni fa.
Spiega del Vajont a un giornalista. Ma per farlo racconta le sue terre, lo fa con una semplicità disarmante. Questa non vuole essere una marchetta per Corona ma l’appartenenza al territorio è uno di quegli aspetti che invidio a lui e a qualsiasi altra persona che la manifesti.

Ecco quindi che mi sono messo sulle tracce dei ricordi, delle storie e delle memorie di questa vallata. La valle del Vajont esiste da sempre. E’ uno di quegli esempi, che personalmente, ho sempre fatto fatica ad immaginare. Qui – e cito uno dei tanti cartelli che mi hanno aiutato – “165 milioni di anni fa l’area del M.Toc e quella della valle del Vajont, erano parte di un’estesa scarpata sottomarina che fungeva da collegamento tra una zona di mare basso ed una di mare profondo (700-1000m). In un primo tempo, tale scarpata, venne incisa da fenomeni franosi che trasportando verso il basso i materiali accumulatisi nel mare poco profondo, consentirono la formazione di rocce calcaree omogenee. In seguito, essendo divenuti gli eventi franosi sottomarini più rari e di modesta entità, i depositi si organizzarono in modo diverso: sottili strati di calcare si alternarono ripetutamente a livelli di argilla e fango carbonatico. Questa successione è già un elemento potenzialmente instabile e infatti la frana del Toc ha coinvolto la fitta e disomogenea alternanza di calcari e di argille, lasciando inalterato il basamento di rocce calcaree omogenee. Le argille, durante la frana, hanno agito come lubrificanti agevolando lo scivolamento.”All’interno del bacino artificiale del Vajont venne giù una montagna intera, una mole mostruosa. Si rimane senza parole al cospetto della montagna, incisa e segnata da un’enorme M che si sviluppa sul versante che guarda Erto e Casso. Li guarda da vicino.
Sempre dai cartelli “E’ come se una superficie pari a 2000 campi da calcio, riversasse uno strato di materiale alto circa 2,5 volte il campanile di San Marco (100 metri). Tale massa, se venisse asportata da 100 camion, calerebbe di 1mm al giorno: a tali ritmi, per rimuoverla tutta, sarebbero necessari 7 secoli”.
100 camion. 1 millimetro al giorno. 7 secoli. Sono numeri che fagocitano tutto.
E penso quindi che sia importante cercare di rispolverare un mondo cancellato, lassù nella Valle del Vajont in cui ora spiccano Erto e Casso. Non sono riuscito a recuperare materiale audio da questa vallata. Ma in compenso ho trovato una ricca tesi di laurea di Pretotto Matteo, che non conosco ma che ci tengo a ringraziare, cartellonistica, chiacchiere con i locali e il sito https://www.comune.ertoecasso.pn.it/


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