La grande guerra – per la prima volta – ruppe il muro del silenzio rispetto alla salute mentale. Cominciarono a parlarne uomini e donne di scienze mediche e non. La psichiatria ebbe a disposizione un enorme laboratorio composto da militari e civili ancora in vita ma con strascichi pesantissimi che, sempre più in fretta, si manifestarono condizionando le loro esistenze.
Le informazioni ottenute sarebbero servite non solo in quei frangenti ma anche a conflitto ultimato; tutto quello che si era studiato, che si era cercato di applicare prima del 1914, divenne tutto d’un tratto prezioso. Fin dal principio, fin dal reclutamento, momenti in cui la psichiatria venne coinvolta per stanare chiunque stesse simulando condizioni non idonee per l’arruolamento.
Dal 24 maggio 1915 (quando l’Italia entrò in guerra) al 4 novembre 1918 (la fine simbolica del conflitto) passarono 1.260 giorni. In questo periodo si stima che circa 40.000 persone fecero ingresso nei manicomi italiani. Una media di circa 31 persone al giorno, mediamente circa 1 all’ora per più di 3 anni.
La vita di trincea, la vita di guerra, l’agonia del conflitto furono uno tsunami di eventi capaci di riversare, in una quotidianità devastante, i problemi legati alla salute mentale. Per la prima volta la psichiatria uscì dai manicomi, la grande guerra divenne un laboratorio a cielo aperto per una scienza medica in costante ascesa.
Ecco quindi la trasformazione della psichiatria.
A dominare, quella militare.
Prima di tutto c’era da onorare la patria. Una patria che doveva essere perfetta, perlomeno sulla carta. Quindi se in principio si escluse, con le prime bombe e i primi morti, gli psichiatri vennero convocati al fronte per valutare la tenuta mentale delle reclute. Anche coloro che vennero ritenuti idonei, al cospetto di una follia del genere, cominciarono a cadere preda di angosce, paure, incubi, terrore, panico.
Il servizio neuropsichiatrico a ridosso del fronte si ritrovò intasato. C’erano pochi posti e molta domanda, una sorta di infermeria. In Carnia e in Cadore l’affollamento fu tale da richiedere la creazione di strutture idonee. In sostanza si costruirono dei piccoli manicomi a ridosso delle zone di guerra. Nelle camerate vennero installate sbarre alle finestre, lettini e corde per ancorare il degente a un periodo di osservazione massimo di 90 giorni. Giorni infiniti, soprattutto per la vicinanza ai campi di battaglia. Nonostante il ricovero, l’ambiente rievocava costantemente le brutalità che li aveva costretti a essere ricoverati. Un tunnel senza fine per massimo 3 mesi, dopodiché i soldati venivano valutati. Se non si riscontravano miglioramenti, la degenza sarebbe proseguita in un manicomio civile.
Ecco che la guerra, anche senza ammazzare, uccise l’anima.
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