Ueli Steck: The Swiss Machine

E’ il 30 aprile del 2017 quando dall’Himalaya arriva una notizia: Ueli Steck ha avuto un gravissimo incidente e non ce l’ha fatta. Ma chi è Ueli Steck? Ueli è un’identità strana che vive il mondo con trasparenza e semplicità. Ha un volto pulito, vestito sempre sportivo, per nulla appariscente. Insomma, la classica persona che ti aspetteresti di incrociare nel parco a fare jogging. Ueli effettivamente corre e corre forte. Ma al parco preferisce risalire i boschi puntando la cima delle montagne. Se non corre arrampica; in libera, con o senza piccozze, su terreni rocciosi o misti.nUeli è polivalente e anonimo, una simbiosi perfetta per sorprendere il mondo a suon di record e tempistiche da alieno. Dice di non correre per raggiungere dei risultati, corre e basta perché gli piace così, gli piace farlo. Non è un personaggio autocelebrativo, lui va, arriva sù, torna giù e se qualche testata giornalistica parla di lui, tanto meglio.
Se lo intervistano, sminuisce. Rimane coi piedi per terra.
Risulta ostico da etichettare come semplice “alpinista”.

Il 2013 è un anno strano con Everest e Annapurna sullo sfondo. Da una parte la vicinanza con la morte dall’altra quella con la fama. Il grande progetto di Ueli viene dirottato sul concatenamento Everest – Lhotse, la prima e la quarta montagna più alta del mondo. E poi ci sarebbe anche il cosiddetto “ferro di cavallo o tripla corona” Everest – Lhotse – Nuptse, un progetto irrealizzato che lo attrae magneticamente.

Il 16/11/2015 stabilisce un nuovo record sulla sua montagna: l’Eiger, lungo la via Heckmair in 2 ore 22 minuti e 50 secondi. Ci aveva lasciato lo zampino anche nel 2007 e nel 2008, facendo segnare i migliori intervalli sulla nord prima che un altro speed climber – Dani Arnold – conquistasse il primato nel 2011. Sempre nel 2008 il primo Piolet d’Or che arriva dopo aver salito l’inviolata nord del Teng Kang Poche. Con lui, lungo i 2.000 metri di sviluppo a fino al VI grado in verticale, c’è un altro svizzero: Simon Anthamatten. Aprono una via che battezzano “Scacco Matto”. Nello stesso anno i due svizzeri si rendono protagonisti di un tentativo di salvataggio estremo a 7.400 metri. Ueli raggiunge lo spagnolo Inaki Ochoa de Olza in solitaria, prova a fare tutto il possibile, a trasportarlo in tenda, forzarlo a bere e mangiare. Inaki però perde conoscenza, Ueli lo rianima ma le condizioni sono troppo gravi e muore tra le sue braccia.

Tra i risultati di Ueli anche la parete nord del Cervino in 1 ora e 56 minuti, oltre all’integrale di Peuterey in 11 ore e 30 minuti mangiando “cinque gelatine energetiche e quattro barrette”. Dopo il primo ottomila nel 2009 – il Gasherbrum II – proietta uno stile veloce e leggero anche sullo Shisha Pangma. Impiega 10 ore e mezza lungo la parete S-O. Nello stesso anno, un altro ottomila, il Cho Oyu arricchisce il suo curriculum.

Poi il 30 aprile 2017 una notizia rimbalza in tutto il mondo: Ueli Steck è morto. Precipita dalla parete del Nuptse, vicino al campo 1 dell’Everest. Stava preparando la traversata dei suoi sogni, Everest-Lhotse quando qualcosa va storto. A fronte di una vita così intensa fatta di sacrifici e passione, fatta di fatiche e gioie, come ci si dovrebbe comportare di fronte alla morte di Ueli Steck? Sarebbe immeritato e insensato ridurlo al classico “folle”, tirando in ballo che “non avrebbe dovuto trovarsi lì”. Dalle fonti traspare il profondo omaggio a The Swiss Machine che una volta, poco dopo l’integrale di Peuterey, descrisse in questo modo il rapporto con l’alpinismo pionieristico:

“Mi sentivo leggero e libero”.


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