Durante i mesi freddi dell’anno bambini e bambine smettevano di giocare. Lo facevano spontaneamente, senza che venisse richiesto. Una sorta di regola non scritta da rispettare perché, semplicemente, era così. Depositavano fionde, fantocci di paglia e spade improvvisate con rami profumati di resina. A volte però, anche dopo abbondanti nevicate, interrompevano la noia dell’inverno ai margini delle prime abetaie.
I giochi dell’infanzia erano sempre gli stessi da generazioni. La prole degli ambulanti – a volte – aveva a disposizione dei gessi. Rigorosamente bianchi, i colori erano per i ricchi. Disegnavano sui ciottoli di fronte alle chiese o sulle mura di case disabitate, barcollanti e divorate dalla vegetazione. Non ce n’erano molte, la gente era ancora parecchia tra le montagne ma da qualche tempo intere famiglie se ne stavano andando. Il lavoro pagava poco e richiedeva molto. Per tirar sù qualche patata, raccogliere fagioli e allevare bestiame da pascolo non ne valeva la pena. Meglio pensare in grande, rischiare e trasferirsi nelle pianure. Mondi sconosciuti e lontani ma decisamente meno ruvidi. Tenute di campagna immense e terreni piatti come laghi glaciali d’alta quota, un sogno per chi era sempre stato accartocciato in modeste proprietà abbarbicate l’una vicino all’altra su per strade talmente in piedi da togliere il fiato ai muli.
Strade rigorosamente bianche. C’era chi andava nei greti di fiumi e torrenti a prelevare ghiaie candide e levigate. Riempivano carri e facevano ritorno in paese. Poi, con la “maestria di una volta”, sistemavano gli accessi e le vie principali fino all’imbocco dei sentieri. Dovevano essere comode per chi ci viveva, animali compresi. Gli zoccoli dei cavalli cantavano sulle ghiaie compatte e accoglienti. Chi aveva qualche anno in più riusciva a rimanere in piedi. In una giornata tersa di gennaio i bambini erano finalmente usciti in piazza. L’aria fredda scottava la gola e i polmoni. In cielo neanche una nuvola. Una stalattite gocciolava sulla lamiera di un capanno, tintinnando. Pagliuzze di ghiaccio scintillanti non se ne sarebbero andate per mesi.
Vennero riesumate le fionde per alcune ore, approfittando delle ghiaie per farne proiettili. Attraversarono lingue di neve – sprofondando fino alle ginocchia – per raggiungere l’unica radura sgombra, protetta da enormi massi e da un tetto di ramaglie. Qualcuno accese un fuoco e rimasero lì.
Stranamente, ancor prima di mezzogiorno si rimisero in marcia. Tante orme di altrettanti piedi abbandonarono la radura in direzione del paese. Non era una domenica normale. Il vento aveva soffiato per tutta la mattina in direzione del bosco, trasportando le chiacchiere degli adulti verso i bambini. Non si distinguevano le parole ma capirono che stava per accadere qualcosa. Uno di loro si arrampicò su un albero abbattuto in autunno. Era marcio, non si recuperò e venne lasciato lì. Qualcuno ne asportò le ramaglie, buone per far da miccia nei camini. Quel gigante caduto in disgrazia divenne quindi una sorta di ponte naturale verso i rami – forti – di alberi in salute. Bambini e bambine scalavano per gioco, abituandosi fin dalla tenera età a non temere le altezze. Da lassù vedevano tutta la vallata, il loro paese e i punti di ritrovo dei grandi. Nelle domeniche estive si rifugiavano in alto per scampare alla messa e nessuno si preoccupava di stanarli. La sentinella di quel giorno notò qualche persona di troppo accanto alla porcilaia. Urlando, domandò se qualcuno sapesse che giorno fosse. Rispose una bambina – “domenica 11 gennaio (1931)“. Dal 30 novembre al 17 gennaio era consuetudine macellare i maiali ma – fino ad allora – non era ancora successo. Si mossero, sospettando che quella domenica fosse il giorno giusto.
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