Teleferiche: lettere dall’inferno

Gli immani sforzi fisici di donne, uomini e animali per il trasporto di alimenti e materiali venne affiancato – laddove possibile – da incredibili opere d’ingegneria. Durante la prima guerra mondiale, sulle retrovie dei campi di battaglia entrarono in gioco le teleferiche che riuscirono a garantire velocità e capacità di carico. Queste macchine semi-volanti riuscirono ad assicurare costanza negli approvvigionamenti e sopravvivenza in alta quota; forse, anche un barlume di speranza, un ultimo sentore di umanità che univa – con funi d’acciaio – i campi di battaglia con le più basse stazioni di carico. Erano posizionate accanto ai paesi che nelle lunghe notti invernali si mimetizzavano al buio – spegnendo ogni possibile fonte luminosa – per non essere individuati dagli Albatros della Luftfahrtruppen (Aviazione imperiale e regia Austro-Ungarica).

La guerra aveva spento la vita sulle montagne, consegnando alla morte decine di migliaia di malcapitati che hanno raccontato molto di quello che successe lassù. E quelle memorie così preziose hanno solcato l’aria in gabbie di metallo, su e giù a dare speranza alle famiglie e conforto ai soldati, grazie all’enorme e fondamentale supporto logistico delle teleferiche. Biblioteche di lettere volarono fra le Dolomiti in quegli innumerevoli viaggi, schiacciate fra sacchi di patate, carni, zuccheri, munizioni, feriti e cadaveri.
Mescolate fra quello che servì a tener duro, perlomeno a sorreggere i corpi oramai ridotti a impalcature di una mente che – nei luoghi più aspri degli scontri – poteva cedere.


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