Franco Miotto: il camorziere

16 Set , 2024 - Le nostre serie

Franco Miotto: il camorziere

Franco Miotto è un personaggio potenzialmente perfetto per le audiocassette a nastro. Quelle che si dovevano girare a metà episodio per terminare l’ascolto. Come se ci fosse un primo e un secondo atto. Proprio come questa storia. Sarebbe riduttivo limitare Miotto alla sola attività alpinistica, nonostante imprese più che estreme. Il mondo di Miotto collide contro le logiche di una società che si mette in mostra. Sembra quasi che voglia mantenere intatte le fondamenta della sua stessa esistenza: fondamenta selvagge, aspre, impervie. Ma anche solitarie. Non sarà però la solitudine il minimo comun denominatore della sua esistenza, sarà l’isolamento. Un isolamento che lo porta vicino a casa ma ai confini del mondo. Sia per cacciare che per scalare.

Episodio 1

Miotto riuscirà a padroneggiare due mondi (caccia e alpinismo) senza essere secondo a nessuno. Riuscirà a sfruttarli per sé stesso e per gli altri. Persino per dedicare un ricordo a chi lo abbandonerà prematuramente. Ma anche per affrontare il dolore devastante di un lutto inaspettato e casuale che porterà via per sempre una delle tre figlie. Tra quelle montagne nasceranno i Viàz: sentieri che non sono sentieri ma nemmeno “arrampicate” perché le difficoltà tecniche, il tanto agognato grado, non è così estremo. Sono tracce che abbracciano e tagliano come burro pareti verticali e sconnesse, loppe scivolose, ghiaie instabili a picco sui precipizi. A comandare è l’assoluta e totale esposizione di questi passaggi; un’esposizione che risucchia la mente verso lo scenario peggiore. Condizioni pressoché perfette per far vacillare l’alpinista più abile. Quando la paura domina la mente, questa si trasforma. Lo fa lentamente, metro dopo metro, fino a implodere per poi demolire le convinzioni di chiunque la sperimenti. Ecco che ci si ritrova invasi dal panico. Un ospite scomodo, soprattutto quando la morte attende alla base delle pareti. Basta un dettaglio per finire giù. Un’eventualità già pericolosa se si fosse assicurati a una corda. Ma da slegati, la situazione cambia.

Episodio 2

La caccia al camoscio prevedeva un’azione corale e collettiva, praticando delle sorte di sbarramenti per terrorizzare gli animali che – prima o poi – sarebbero stati impallinati da qualche fucile. Franco Miotto invece si muoveva da solo, passava dove passavano i camosci, si appostava per giorni se necessario, poi premeva il grilletto. Era piuttosto raro che sbagliasse il tiro. Aveva un fucile con componentistica tedesca, molto affidabile e preciso, recuperato in un’armeria di Bolzano. Era un cecchino. Nel vero senso della parola. A 22 anni, durante il servizio militare al centro di paracadutismo di Viterbo, Franco era stato riconosciuto come il miglior tiratore in diverse esercitazioni. La pistola Winchester era dotazione comune, il fucile di precisione Enfield no. Quello se lo aggiudicò meritocraticamente.

Episodio 3

Nel 1973 Riccardo Bee propose a Miotto di entrare a gamba tesa nell’olimpo. Il Burèl era stato salito nel 1967 per la prima volta, nel 1968 c’era stata la ripetizione di Messner e Renzler ma mai nessuno – fino ad allora – aveva osato salire la stessa via nella condizione peggiore che si potesse immaginare: l’inverno. Fu questa la proposta di Bee. Franco inizialmente lo prese per pazzo, loro due che arrampicavano da neanche due anni sarebbero dovuti salire sulla stessa parete che aveva tenuto sotto scacco generazioni intere di alpinisti. Cordate internazionali battute in ritirata, solitudine, isolamento, Messner e Renzler che addirittura sconsigliarono un’impresa simile ad una singola cordata. In caso di necessità, nessuno avrebbe potuto correre in loro aiuto. Perlomeno nei tempi canonici per garantire la sopravvivenza. Il Burèl era nascosto dietro casa, ma ai confini del mondo. Forse per l’effetto di qualche bicchiere di troppo, Franco rivide la sua posizione. Non sminuì mai le cordate che aprirono la via Italo-Polacca nel ‘67, non sottovalutò mail quel chilometro e mezzo in verticale. Non lo fece nemmeno dopo aver dimostrato ai bellunesi cosa aveva imparato negli anni trascorsi tra le pareti della remota Val di Piero. Piuttosto sottovalutava sé stesso. E questa attitudine, apparentemente pessimistica, riuscì a tenerlo in vita anche nell’inverno del 1974.


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