Nel 1989 ho iniziato a lavorare in una multinazionale dell’occhialeria. E’ stata un’esperienza bellissima, di crescita continua. Ero un buyer, condividevo idee e progetti con persone diverse. Le conoscenze che ho instaurato hanno arricchito la mia vita personale. Poi ci sono i sogni e i sogni bisogna tirarli fuori dal cassetto e realizzarli, senza lasciarli lì sopiti. Se noi perdiamo il ricordo delle nostre origini, rischiamo di svilire fatiche e attività che venivano fatte molto tempo addietro. Tutte attività che hanno consentito di mantenere, magari in piccola parte, il presidio delle persone nel territorio montano. Uno dei problemi più importanti, ad oggi, è il dissesto idrogeologico e dovremmo chiederci perché siamo arrivati a questo punto. C’è proprio l’abbandono e l’incuria del territorio: i prati non sono coltivati, i boschi non sono gestiti e la natura si riappropria di ciò che l’essere umano abbandona. Mi ricordo quando, in primavera, mettevo a posto i sentieri con mio padre e mio nonno perché erano necessari per il trasporto del fieno; se c’era un problema, non si aspettava che venisse giù mezza montagna.
Essere seggiolaio mi fa sentire parte del territorio, una presenza continua con tutto quello che mi circonda. Nella frenesia del lavoro ci si dimentica che l’essere umano è fragilissimo e, quando si perde l’attimo nel cambiare, va a finire che si perde tutto. Abbiamo una vita sola, la pandemia ci ha messi in ginocchio ma ci ha costretti a rallentare un attimo. Nella mia testa non c’è solo l’obiettivo di fare qualcosa di alternativo che mi piaccia, ma dimostrare che certi lavori si possono e si devono mantenere perché hanno un alto grado di sostenibilità. Uno dei miei scopi è quello di trovare qualcuno che vada avanti con questo lavoro, ne basterebbe solamente uno per sentirmi completamente realizzato.
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