L’alba del 13 agosto 1802 mette il punto su una notte agitata. Una di quelle che sembrano non finire mai. Una di quelle in cui l’angoscia invade la cassa toracica e spinge sullo sterno. Respiri affannati scandiscono secondi che somigliano a ore.
Le prime luci sono timide e velate da un ammasso di nubi che non si dirada. Sono rimasti vigili, attenti ai rumori che circondano l’unica stanza. Si spera che possa fare ritorno. In qualche modo avrebbe potuto farcela.
Tre letti a castello incastrati lungo le pareti si affacciano su un tavolo logoro e umido. Le travi del soffitto sono marce, le mensole impolverate, c’è un bicchiere con escrementi e mirtilli sciupati, le inconsistenti pareti della baracca non isolano dal freddo..
Accanto alla porta d’entrata uno scanso nasconde un modesto camino, unica fonte di calore lassù, unica possibilità di sopravvivenza durante l’inverno.
Quel mondo non è fatto per l’essere umano, bisogna farsene una ragione. Forse avevano sfidato la sorte senza rispettarla o forse non avevano capito nulla. Gli uomini si ridimensionano in quella gabbia di legno scassato. Viaggiano con la mente, colpevoli innocenti di una tragedia che si concretizza secondo dopo secondo. Don Giuseppe Terza non è rientrato.
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